venerdì 2 dicembre 2016

Trigger

L’intervento del generale Manenti al convegno organizzato dall’Arma dei Carabinieri è stato particolarmente interessante perché ha offerto il punto di vista esclusivo dello specialista che, conoscendone la tipologia e il modo di dispiegarsi, deve prevenire la minaccia monitorando ed intervenendo sugli attori in grado di metterla in atto. E’ un processo che almeno in linea teorica non prevede la nostra partecipazione diretta, se non magari come testimoni o informatori dei meccanismi parziali che lo regolano. La testimonianza del direttore ha permesso di comprendere il modo di ragionare di quel tipo di investigatore e la metodologia seguita.
Le forze dell’ordine e i rappresentanti del mondo delle istituzioni che incontriamo sui social o ai convegni e persino attraverso le fiction, agiscono piuttosto sulla percezione degli eventi in modo da stimolare la nostra presenza nella galassia della cosiddetta sicurezza partecipata. Riescono così a creare empatia e a farci entrare in un angolo del loro mondo. Non si cristallizza però la consapevolezza globale degli eventi. Il punto di vista dell'intelligence invece, nella sua essenzialità, permette anche di comprendere scelte in apparenza infauste come la formazione del governo libico e gli scambi di visite tra Roma e Damasco. Di capire la necessità che spinge verso soluzioni a largo raggio e a ragionare nell’ottica di rischi maggiori sia da correre che da affrontare.
Nel tempo inoltre sono cambiate le condizioni e le esigenze. Diceva Michael Hayden che ai tempi della guerra fredda era facile trovare un carro armato sovietico nell'Europa dell'Est ma era difficile abbatterlo senza scatenare una guerra mondiale. Oggi è facile uccidere un terrorista ma è arduo trovarlo nascosto in un internet cafe. Secondo Mike Morrell, quella attuale è la golden age per l'intelligence, perchè è l'unico comparto in grado di scovare il pericolo e  neutralizzarlo in tempo. Che è poi  lo stesso concetto espresso dal generale Manenti quando ha illustrato le difficoltà incontrate per trovare gli agganci dei foreign fighters di ritorno.

Per quanto concerne la componente genetica del profilo del radicalizzato, ricordiamo come in area balcanica, dove risiedono anche le istituzioni che hanno fornito le analisi alle quali si affida l’Aise, abbiamo ascoltato nel corso del processo istruito dal pubblico ministero Campara, il racconto dei genitori dei ragazzi istigati da Bilal Bosnic a partire verso la Siria. Laddove è presente un profilo patologico a livello mentale, e tra loro ce n’erano diversi, è possibile parlare anche di profilo genetico del fenomeno. Ma in generale a mio parere, il vissuto del soggetto e un certo tipo di stimolazione ambientale, sono sufficienti a prepararlo a quello che poi sarà lo scatto finale. A prendere cioè la decisione di farsi esplodere o preparare un attentato in gruppo, oppure anche di andare a combattere. E’ vero, come ha affermato il direttore, che il disagio socio-economico non è più considerato un fattore decisivo, ma diventa importante se percepito come una opportunità negata. E’ questo il caso delle seconde generazioni, così come raccontato da Lamberto Giannini in sede parlamentare a proposito del kamikaze di Londra arrestato dall’Ucigos.
In generale tutti quei fattori che determinano l’esclusione dalla comunità alla quale si appartiene, concorrono a creare un’ampia gamma di profili, dal radicalizzato al foreign fighter, caratteristici del fenomeno. Secondo alcuni biografi, Lawrence d'Arabia è da considerare uno dei primi foreign fighters della storia. La molla che fece scattare in lui la voglia di mettersi alla testa di un esercito di beduini, sarebbe stata la sua condizione di figlio illegittimo, ben conosciuta negli ambienti di riferimento e ritenuta una macchia indelebile per l’Inghilterra dell’epoca. Essere etichettati come terroristi da bambini per il solo fatto di appartenere ad una minoranza etnica o religiosa, come spesso accade da noi, lascia un segno invisibile che a tratti può tornare vivo anche quando pare silente.
Il web è un rifugio per i ragazzi che vanno alla ricerca delle proprie origini o anche del contatto con i propri simili. Una volta immersi in rete, trovano da un lato il materiale che li riporta in un passato che gli appartiene solo nominalmente, dall’Egitto di Sadat all’Afghanistan di bin Laden, e dall’altro il famigerato trigger messo in azione dal reclutatore che conosce i tasti giusti da spingere. A quel punto scatta qualcosa. Non c’è nulla di diverso in un potenziale terrorista rispetto ad una qualsiasi altra persona. Ciascuno di noi si porta dietro frustrazioni, questioni irrisolte, fallimenti. A volte ci si riesce a convivere. Altre volte meno. Se l’innesco giusto parte nel momento sbagliato, nascono problemi seri. Per noi stessi e per gli altri.

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